Putin si è spinto troppo avanti, a scapito della logica e perfino della convenienza. Scatenando un’invasione feroce con un’escalation di attacchi barbarici contro le principali città, i civili inermi, fino all’ignominia del bombardamento contro un ospedale pediatrico e dei morti scaraventati nelle fosse comuni

di Gianni Perrelli

Per decifrare la durata di una guerra novecentesca, scoppiata inconsultamente nel cuore dell’Europa, servirebbero più gli indovini dei geopolitologi che in fatto di previsioni non ne hanno azzeccata una. A parere pressoché unanime appariva in un primo momento scontato che Vladimir Putin si sarebbe limitato a alzare il tiro per spaventare l’Occidente con le provocatorie manovre ai confini dell’Ucraina. Mossa enfatizzata per indurre Stati Uniti e Europa a soffocare le aspirazioni di Kiev ad aderire alla Nato. In una seconda fase, subito dopo il riconoscimento delle due repubbliche separatiste filorusse, sembrava verosimile che lo zar di Mosca si sarebbe accontentato dell’annessione del Donbass. Per circoscrivere ancor più la territorialità dell’Ucraina dopo l’occupazione della Crimea. Oggi che ogni linea rossa è stata superata è arduo immaginare una rapida conclusione.

Putin si è spinto troppo avanti, a scapito della logica e perfino della convenienza (lo spettro della bancarotta agitato dalle pesantissime sanzioni). Scatenando un’invasione feroce con un’escalation di attacchi barbarici contro le principali città, i civili inermi, fino all’ignominia del bombardamento contro un ospedale pediatrico e dei morti scaraventati nelle fosse comuni.

Le domande ora si fanno ancora più drammatiche e toccano l’intera umanità. Fino a che punto Putin intende spingere la sua bulimia di onnipotenza? L’avanzata dell’armata russa rinforzata dai mercenari siriani, rallentata da impreviste battute di arresto per gli aiuti (caccia, droni, missili anticarro) forniti sotto banco dalla Nato, culminerà con l’uso di armi chimiche? La dismisura dell’offensiva lascia intuire che senza interventi esterni – impossibili perché spianerebbero la strada alla terza guerra mondiale – la resistenza ucraina potrà forse ritardare la capitolazione. Ma non impedire che il paese si sbricioli in un cumulo di macerie e che la popolazione (forzosamente stanziale o in fuga) porti per sempre impressa sulla sua pelle i segni di una tragedia che rievoca la brutalità dell’espansionismo nazista. Dopo due settimane di conflitto asimmetrico i crimini bellici commessi dagli invasori giustificherebbero già una riedizione del processo di Norimberga. Perché la Russia può accampare come alibi la paura di venire accerchiata dalle forze Nato in strisciante espansione. Ma prima di aprire le porte dell’inferno ha scartato sdegnosamente i canali diplomatici per allentare i suoi timori. Scegliendo la strada di un’aggressione che si sta trascinando in una scia di orrori.

Ma una volta ridotta al guinzaglio l’Ucraina Putin si riterrà sazio? O il suo delirio imperialista, accentuato dalla profonda avversione per le nostre libertà, lo spronerà ad attaccare anche la Moldavia e la Georgia, due delle ex repubbliche dell’Unione Sovietica che non accettano di finire sotto il giogo di Mosca? O addirittura di sfidare l’apocalisse muovendo le truppe contro Estonia, Lettonia e Lituania, le tre repubbliche baltiche che dopo lo sganciamento dall’Unione Sovietica hanno cercato riparo sotto il duplice ombrello protettivo dell’Europa e della Nato che per statuto non potrebbe non reagire? O, infine, indebolito dall’esecrazione di gran parte dell’umanità e dall’isolamento politico e economico (che la Cina solo in parte sembra disposta a rompere), sia tentato addirittura di premere il bottone nucleare?

Quesiti angosciosi che nella sfera psicologica, anche per l’incubo di una crisi energetica, rendono già mondiale questo conflitto. In attesa degli sviluppi, al momento del tutto oscuri, si può in ogni caso già tracciare sotto il profilo delle intuibili conseguenze un bilancio sommario.

CHI VINCE

In un repentino passaggio da presidente burletta in un paese morsicato dalla corruzione a eroe nazionale, esempio di nobile resistenza per i democratici di tutto il mondo, si staglia sul podio dei vincitori la figura di Volodymyr Zelensky. Non è indietreggiato di un millimetro davanti alla prepotenza del nemico. Sfrutta con maestria la familiarità con i social, accumulando vantaggi sulla scena mediatica. Continua a rifiutare l’offerta degli Stati Uniti di metterlo al sicuro in retrovie più fidate nonostante sia scampato già a tre attentati. Coordina la difesa nazionale da un bunker di Kiev con uno spirito patriottico che, anche se venisse ucciso, gli sta assegnando un posto di rilievo nella storia dell’Ucraina. Stretto nell’angolo dall’incalzare dell’offensiva predispone le sue truppe a impantanarla con azioni di guerriglia. E se l’Occidente non interverrà con maggior energia a fornirgli un supporto è propenso al massimo a accettare una neutralità permanente sul modello austriaco e di lasciare a Mosca il controllo delle regioni filorusse pur di conservare intatta almeno per i due terzi la sovranità territoriale dell’Ucraina. Perfino Putin, che lo ha sempre disprezzato, gli riconosce oggi un ruolo che ha fatto piazza pulita delle sue alleanze opache nella veloce ascesa dalle ribalte della comicità ai vertici del paese. Nelle condizioni poste da Mosca per l’accettazione di una pace c’è anche l’ipotesi di una sua permanenza nella carica sia pur simbolica di presidente, con i poteri esecutivi assegnati a un premier fantoccio. E il ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov ha detto ad Antalya che lo zar moscovita sarebbe disposto prima o poi ad incontrarlo su imprecisate “questioni politiche”. Mentre fino a pochi giorni si negava perfino al telefono.

In subordine questa efferata invasione regala una rendita di posizione al leader cinese Xi Jinping. Che riafferma l’inossidabile amicizia con la Russia. Che è pronto a salvare Putin dal baratro del fallimento, acquistandogli l’energia e il grano che l’Occidente è sempre meno disposto a ricevere da mani tanto insanguinate. Con il vantaggio di contrarre un credito che pone la Russia in condizione di vassallaggio rispetto al potente alleato. Ma, al contempo, bada bene a non sbilanciarsi. Negandogli i pezzi di ricambio per i jet dell’Aeroflot in avaria. Astenendosi, anziché schierarsi contro, sulla mozione di condanna contro Mosca. E proponendosi come eventuale mediatore del conflitto in simbiosi con l’Europa. Una condotta prudente che gli è valsa una riapertura di dialogo con gli Stati Uniti culminata nel meeting di Roma fra diplomatici di alto rango.

Pechino non ha alcun interesse che il conflitto si protragga anche perché interrompe le linee di comunicazione della Via della Seta, la strategia commerciale che tende a moltiplicare i canali di scambio con l’Europa. Se la Cina è diventata in pochi anni una superpotenza lo deve anche alla globalizzazione che le ha permesso di penetrare nei mercati di tutto il mondo estendendo una rete che la guerra mette in pericolo. In un’epoca così tempestosa Xi Jinping non ha neanche convenienza a sganciare del tutto la sua economia da quella degli Stati Uniti (il decoupling).

La resistenza di Kiev dà inoltre a Xi Jinping uno spunto di riflessione pure su Taiwan. Gli fa capire che l’Occidente non è arrendevole come ingannevolmente lasciava presupporre l’ingloriosa ritirata dall’Afghanistan. Se la Cina, come da tempo minaccia, decidesse di attaccare Taiwan l’America non se ne starebbe sicuramente con le mani in mano. L’Ucraina, in definitiva, evita a Xi Jinping passi avventati e schiude forse una via diplomatica per la soluzione dell’annosa controversia.

Almeno parzialmente vincitore potrebbe risultare anche il presidente degli Stati Uniti Joe Biden, massacrato dai sondaggi prima dello scoppio del conflitto (soprattutto a causa dell’inflazione) e oggi in trend di ripresa. Aveva svelato, senza che quasi nessuno gli credesse, tutte le mosse di Putin. Ha rinsaldato i legami con l’Europa che il suo predecessore Donald Trump aveva affossato. Ha restituito importanza alla Nato che solo un anno fa per il presidente francese Emmanuel Macron era un’istituzione in coma profondo. E negando a Zelensky forniture dirette di armamenti e la no fly zone (che sfocerebbe subito in una guerra mondiale) sta riacquistando benemerenze anche agli occhi degli americani, stufi di vedersi attribuire in eterno il ruolo di gendarmi del mondo  per cause lontane dai loro interessi.

CHI PERDE

Che riesca ad annettersi o meno l’Ucraina, Putin ha già straperso. Demonizzato dalle democrazie dell’intero pianeta. Guardato con timore anche da alcune autocrazie, che non lo hanno appoggiato nella mozione Onu, per la pretestuosità del suo assalto e per il livello al di sotto degli standard minimi di umanità con cui sta disgregando un paese di oltre 40 milioni di abitanti. Marchiato per sempre di infamia nelle coscienze di chi, nei fiumi di narrazioni intossicate, conserva ancora la lucidità per distinguere il confine fra il bene e il male.

Pur in una gestione cinica e spregiudicata del potere, Putin per oltre 20 anni non aveva mai smarrito le corde della razionalità. Ci fu un periodo in cui dialogava in amicizia con l’Occidente, aderendo al G8 e non escludendo perfino un ingresso della Russia nella Nato. Certo, la ferocia è sempre stata un tratto distintivo del suo istinto torbido. Affinato nelle file del Kgb. Esercitato a viso aperto nella distruzione totale di Grozny durante la guerra civile cecena, nella durissima repressione in Georgia e per conto del leader siriano Bashar Al Assad nella riconquista di Aleppo ridotta ad un ammasso di rovine. Sbrigliato nella penombra con l’eliminazione fisica dei dissidenti e la persecuzione di Aleksey Navalny, l’oppositore più insidioso.

Nella recente alterazione della sua psicologia possono aver inciso la presenza di una malattia misteriosa che lo rende gonfio e riluttante ai contatti ravvicinati e sicuramente alcuni errori di valutazione. La presunzione di invincibilità dopo i successi militari in Medio Oriente e in Africa. La convinzione illusoria, dopo la fuga dall’Afghanistan, di un Occidente sfibrato, avviato a una rapida decadenza, che non avrebbe avuto più la forza e neanche la voglia di contrastare i suoi disegni imperiali. La certezza, smentita, che l’Ucraina avrebbe opposto solo una debole resistenza e la guerra di conquista si sarebbe conclusa in una manciata di giorni.

I sondaggi russi, non si sa quanto manipolati, indicano che il 70 per cento della popolazione russa è ancora con lui. Nonostante le pesantissime sanzioni che generano già tremendi sacrifici. Ma la Russia, superpotenza militare e nucleare, ha un’economia asfittica. La stragrande maggioranza della popolazione, specie quella rurale, vive da sempre in condizioni di relativa povertà. E qualche privazione in più è compensata, almeno sui tempi brevi, dall’orgoglio restituito per un sussulto di protagonismo che rimette in vita la vocazione imperiale.

Si aggiunga che non esiste più una stampa libera nel paese. Ogni notizia viene filtrata, orientata e proposta secondo i dettami del Cremlino che occulta le pagine più vergognose. Per cui la Russia profonda è portata a credere veramente che l’intervento sia nato solo dall’esigenza di difendere dal nazismo le minoranze filorusse e che le rare informazioni sulle brutalità inferte alla popolazione civile siano solo il frutto avvelenato della propaganda occidentale.

Non si capisce quanto possa andare avanti una Russia degradata da grande potenza a paria internazionale, con un’economia sostanzialmente imbrigliata e le immense risorse non più facilmente monetizzabili sui liberi mercati. Al momento pare inipotizzabile un colpo di Stato perché Putin controlla tutti gli apparati del potere. Anche la chiesa ortodossa è con lui nella strenua difesa di valori morali mortificati agli occhi del patriarca Kirill dalla deboscia dell’Occidente. E gli oligarchi che lo appoggiavano non hanno mai avuto alcun peso nella sfera politica. Solo a gioco lungo la popolazione stremata da una possibile carestia potrebbe rivoltarglisi contro. Ma perfino se riuscisse a sgattaiolare fra le enormi difficoltà l’immagine di Putin è irrecuperabile. Rimarrà in eterno il tiranno responsabile di un massacro che rischia di sfociare in un genocidio. Non ha ancora certo toccato le vette di abiezione di Stalin o di Hitler, l’icona del Male assoluto. Ma più di un osservatore sottolinea che comincia a assomigliargli.

Nel girone dei perdenti vanno ovviamente ascritte le comparse che ruotano intorno a Putin. Il dittatore bielorusso Aljaksandr Lukashenko, che gli tiene bordone. Il sopravvissuto Bashar Al Assad, che presiede una Siria ridotta ormai a colonia della Russia. Il leader nordcoreano Kim Jong-un che con uno stralunato movimentismo lascia il suo paese nella miseria e ai margini del consesso internazionale.

CHI LUCRA

C’è una legione di aspiranti mediatori che si agitano per ricavare vantaggi dalla loro febbrile attività. In testa il presidente francese Emmanuel Macron, sul cui tasso di democraticità non è certo lecito dubItare, che bracca Putin nel vano tentato di riportarlo alla ragione. Ma, nonostante l’inutilità dei suoi sforzi, occupa la scena e calamita consensi interni per l’ostentato dinamismo in vista della probabile rielezione all’Eliseo nel prossimo mese.

Analogamente il presidente turco Recep Tayyp Erdogan, pendolando con i piedi in più scarpe fra la Nato, Zelensky e Putin, spera con le sue iniziative di far dimenticare con un attivismo sia pur caotico il dissesto della sua economia e il pugno duro nella sfera di diritti civili. Lo stesso Boris Johnson, che però ormai ha rinunciato a interloquire con Putin, conta con il presenzialismo di far scivolare nell’oblio le inchieste poliziesche per la violazione delle regole sulla pandemia e sugli ostacoli all’economia insorti dopo la Brexit. Il primo ministro israeliano Naftali Bennett ha un duplice scopo nel tenere aperti i canali con Putin. Protegge idealmente i legami con la madrepatria del milione di russi diventati cittadini di Israele. E ha interesse a dialogare con il Cremlino, che controlla la Siria, per arginare le continue minacce dell’Iran.

La guerra ucraina può ridisegnare gli equilibri perfino in America Latina, così geograficamente lontana dal teatro bellico. Il dittatore venezuelano Nicolas Maduro ha ricevuto nei giorni scorsi una delegazione del governo americano che non ha mai riconosciuto la legittimità della sua carica (per Washington il presidente è l’oppositore Juan Guaidò) ma che ora tende a sganciare l’antico nemico dalla sfera di influenza di Putin. Cercando di convincerlo a cedere il petrolio agli Usa e non più alla Russia. Un dialogo che al momento non registra grandi progressi, salvo un gesto di conciliazione di Caracas che ha liberato due prigionieri politici americani. E un piccolo tornaconto lo sta ricavando anche il leader cubano Miguel Canel: Washington ha riaperto i servizi consolari e medita forse un allentamento delle sanzioni per paura che Putin piazzi i suoi missili nelle basi militari dell’Avana, proprio davanti alla Florida.

CHI STA ALLA FINESTRA

Schiacciata fra l’incudine della ripulsa etica e il martello del bisogno energetico e alimentare si addensa una colonia di leaders di paesi in via di forte sviluppo, come l’indiano Narendra Modi e il pachistano Imran Khan. Si sono astenuti sulla mozione di condanna dell’Onu per gli irrinunciabili legami commerciali con Mosca. E anche perché, alla pari di Putin, privilegiano il nazionalismo più acceso come bussola ideologica.

CHI E’ PENALIZZATO

FermissimI nella condanna delle degenerazioni del putinismo, ma preoccupati e quindi un po’ prudenti) per il rischio di vedere ridotte le commesse energetiche, sono alcuni leaders europei dal purissimo dna democratico che governano paesi fortemente dipendenti dai rifornimenti di gas dalla Russia. Fra questi il nuovo cancelliere tedesco Olaf Sholtz e l’italiano Mario Draghi che si sono uniti senza remore alle sanzioni contro il Cremlino. Ma che per ragioni interne avrebbero interesse a tenere in vita un canale di comunicazione anche se Germania e Italia sono già stati inseriti per ritorsione da Mosca nella lista dei paesi ostili.

Una ottantina di anni fa, durante l’invasione nazista della Polonia, ci si interrogava se fosse il caso di morire per Danzica. La prospettiva, nel prossimo inverno, potrebbe essere quella di chiedersi se è il caso di morire di freddo per Kiev.

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